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Scuola e Famiglia: una Relazione Possibile (2)

di Rosa Armocida e Elvio Mattalia

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 9788866778981_0_0_282_75.jpgE’ possibile, nell’attuale complesso contesto socioculturale tenendo conto dell’ istituzione famiglia, nella varietà delle sue configurazioni, e dell’istituzio­ne scuola contestata, continuamente modificata, impoverita da riforme e mini­stri, individuare condizioni reali per un adeguato rapporto famiglia/scuola?

Ritorniamo alla considerazione che ogni società origina valori, cultura, comportamenti, che caratterizzano l’uomo di quella società, e conseguen­temente la struttura familiare e il suo modello educativo.

Lo sottolineiamo ancora una volta con le parole Bettelheim, dal libro I figli del sogno:

[…] ogni società, educando la futura generazione, pone al bambino, in ogni stadio dello sviluppo, particolari esigenze che derivano dallo specifico modo di vita di quella società. Tali esigenze raggiungono il bambino mediante gli atteggiamenti che egli incontra nelle persone che si prendono cura di lui; atteggiamenti che insieme lo mettono in grado e lo costringono a risolvere i problemi posti dal suo sviluppo.

E questi problemi non sono altro che i conflitti che la società permette o esige. È proprio il modo in cui si risolve questo conflitto che lo porta sempre più vicino a diventare un membro vitale ed efficiente di quella società […]

e […] nessun sistema educativo può essere compreso separatamente dalla società in cui serve.

Ma la nostra società, come abbiamo evidenziato, esprime non un solo modello di famiglia e più di un modello educativo sia all’interno della famiglia stessa, sia all’interno della scuola. Gli insegnanti non sono tutti uguali, così le loro metodologie, il loro modo di porsi nei confronti di alunni e famiglie, pur all’interno di comuni quadri programmatici. Non dimentichiamo, per que­st’ultimo aspetto, la discrasia esistente tra la scuola reale e quella proposta dai diversi tentativi di riforma. Gli ultimi in tendenza regressiva rispetto alle migliori sperimentazioni, ricerche, modus operandi diffusi sul nostro terri­torio.

Varietà di gruppi familiari e di situazioni scolastiche, varietà, in termini più generali, di comportamenti, di stili di vita, di visioni del mondo, che con il loro intreccio costituiscono quella trama che definiamo “complessa” termine che qui usiamo non tanto perché è ormai invalso nel linguaggio comune, ma perché trova fondamento nella “teoria della complessità” di Edgard Morin.

Occorre, pertanto, che l’insegnante sappia stare dentro la complessità, collocarvisi mentalmente, sapendo assumere un atteggiamento accet­tante delle contraddizioni esistenti.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 9788866778981_0_0_282_75.jpgQUALE RUOLO PER L’INSEGNANTE?

Con un’ottica questa volta più psicopedagogica cerchiamo di specificare meglio il compito degli insegnanti. Nella relazione con le famiglie essi devono saper cogliere tra gli aspetti contraddittori anche quelli positivi, quelli su cui far leva per creare una buona alleanza.

Gli Orientamenti per la scuola materna del 1991 ricordano molto puntualmente che il contesto familiare

[…] include elementi che possono favorire una migliore realiz­zazione personale, aumentare il grado di responsabi­lizzazione dei genitori, consentire una migliore capacità di lettura, comprensione e soddisfazione dei bisogni e delle esigenze dei bambini, incoraggiare una più condivisa accettazione dei compiti, riscoprire e rivalorizzare ruoli e funzioni di tutti i componenti del nucleo familiare. Al tempo stesso, tuttavia, può comportare vissuti di incertezza e di ansia, atteggiamenti di chiusura e di isolamento, riduzione della gamma dei rapporti e delle relazioni, limitazione degli spazi di movimento e di autonomia, più prolungati tempi di assenza degli adulti significativi.

Per gli insegnanti, pensiamo di qualsiasi ordine di scuola, tale quadro di riferimento dovrebbe essere un orizzonte di riferimento per poter adempiere al proprio compito educativo: formare uomini “realizzati” e cittadini respon­sabili, che possano agire avendo sviluppato solide capacità riflessive, che pos­sano adattarsi al proprio contesto di vita, ma possano anche renderlo miglio­re, affrontandone le contraddizioni, ampliandone i confini democratici.

In tal senso gli insegnamenti di John Dewey non sono per nulla tramon­tati, così come sono di grande attualità le riflessioni di un altro filosofo del nostro tempo, Norberto Bobbio, sull’intreccio ineludibile ed inscindibile tra scuola, educazione e democrazia.

Se questo è il compito degli adulti che educano, come assolverlo? Qual è la proposta?

È semplice, ma non semplicistica e di certo è piuttosto faticosa.

Proponiamo agli adulti educatori l’esercizio di “un pensiero meditante”, usando le parole di Martin Heidegger, che, relativamente al dominio della tecnica nel mondo contemporaneo, alla fine degli anni ’50 scriveva:

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo… non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente accadendo nella nostra epoca.

L’attualità di tale considerazione è del tutto evidente.

La necessità di riflessività, o meglio di pensiero meditante, non è più dilazionabile se vogliamo andare oltre le apparenze e comprendere cosa sta realmente accadendo nella nostra epoca. Ci dice U. Galimberti:

[…]gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato al mondo[…].

L’uomo, afferma, disponeva di descrizioni fondate su una cosmologia o su una metafisica caratterizzate da stabilità che permettevano di discernere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto e di stabilire una gerarchia di valori per realizzare un cammino che aveva un senso, un fine con la promessa di salvezza e di verità. Nella società attuale questi riferimenti tradizionali sono stati erosi dal paradigma tecnico-scientifico, in quanto la tecnica non si prefigge di promuovere un senso o di svelare la verità, bensì esclusivamente di funzionare e, poiché il suo funzionamento/potenziamento afinalizzato diventa oggi planetario, finiscono sullo sfondo i concetti caratterizzanti l’epo­ca pre-tecnologica, quali natura, individuo, identità, etica, storia, politica, che devono perciò essere riconsiderati e rifondati. Una sfida ardua, che va accolta per poter prefigurare un nuovo umanesimo ed una nuova cittadinanza, se vogliamo ridare senso al futuro.

Ritornando, con questa prospettiva, al nostro specifico educativo, occor­rono adulti, insegnanti e genitori, che, assegnando al proprio ruolo una di­mensione etica, sappiano interrogare se stessi ed il mondo, siano consapevoli delle proprie rappresentazioni della realtà, sensibili ed aperti, capaci di confrontarsi con l’altro, di offrire saggezza e fermezza.

Diciamo allora che si inizia a svolgere il ruolo di adulti educanti proprio nel momento in cui si è in grado di assumere la propria responsabilità formativa. Una responsabilità che appartiene loro in qualsiasi modo la esercitano, quando esprimono autorevolezza e quando non la esprimono o anche solo quando un bambino, un ragazzo, un giovane li sfiorano fugacemente.

In tal senso genitori ed insegnanti possono divenire un modello per i nostri giovani, con il quale possono confrontarsi; un modello che non assume certezze e verità indiscutibili, ma che propone comprensione, empatia, dispo­nibilità all’incontro tra “viandanti” che percorrono lo stesso cammino esi­stenziale.

COME FAVORIRE LA POSSIBILE RELAZIONE INSEGNANTI GENITORI

Bollea ci ricorda:

La collaborazione genitori-scuola è oggi quanto mai necessaria per strutturare la personalità dei nostri figli, aiutandoli a crescere at­traverso la riflessione sui fatti e le relative deduzioni critiche (….)

Ma come perseguire tale obiettivo?

La crisi di tale rapporto, oggi come in passato, riguarda in prima istanza il modo di comunicare, il modo di porsi l’uno di fronte all’altro. Ognuno ha la propria rappresentazione di sé e del mondo, ma questa non descrive tutta la persona che la esprime, può essere “semplicemente” la risultante di una costruzione razionale e può non essere corrispondente alle diverse stratificazioni inconsce dei propri vissuti.

Da queste considerazioni scaturisce il secondo assunto che proponiamo a chi voglia migliorare un rapporto che raramente è esente da difficoltà.

Al fine di stabilire “buone relazioni” con altri adulti, colleghi, genitori, ma anche con i propri allievi, proponiamo agli insegnanti l’esercizio delle “buone” domande e della riflessione continua sulle proprie modalità comunicative; potremmo definire tutto ciò un valido esercizio di metacognizione comu­nicativa.

Lo proponiamo a loro in primis, poiché i genitori il più delle volte si accostano al docente, anche nei casi in cui palesano una certa sicurezza e quell’arroganza di certezze a cui avevamo accennato, timorosi del giudizio svalutativo, cui possono andare incontro, del proprio figlio e del proprio operato. Tocca ai docenti, in qualità di esperti e con una formazione psico­pedagogica adeguata per tale scopo, fare il primo passo, porre la prima pietra per costruire il ponte comunicativo. Ai genitori non vanno sottratte le loro responsabilità, ma non ci si può aspettare che tutti siano pronti, maturi, sufficientemente adulti per entrare nella scuola in modo collaborativo, pronti a ricevere qualsiasi suggerimento o consiglio e pronti a darne.

Un insegnante non dovrebbe mai dimenticare che quando incontra un genitore per raccontare qualcosa del suo alunno in realtà sta parlando del figlio di quel genitore, del suo bene più prezioso, del suo investimento per il futuro, su cui proietta molto di sé e dei suoi desideri. Deve accettarlo insieme alla propria fatica di “stare” con se stesso e dentro il mondo. Quanti inse­gnanti sanno sopportare la fatica, la delusione per l’insuccesso con quel particolare allievo, il dolore per i propri errori, per certi comportamenti che si sono rivelati sbagliati in un determinato contesto?

Vale anche per loro la necessità della consapevolezza dei propri limiti e della propria fragilità. Si è tutti in transito ed alla ricerca del senso del viaggio. Poterlo compiere insieme, avendo lo stesso compito da svolgere, nel rispetto reciproco, è una condizione irrinunciabile per chi svolge il ruolo di educatore e per costruire insieme un nuovo umanesimo che, come abbiamo già detto, diventa oggi una necessità non più procrastinabile.

Torniamo quindi alle buone domande. Quando un insegnante si pone di fronte ad un genitore dovrebbe interrogarsi sulla propria modalità di comunicazione, che può essere ora collaborativa, assecondante, ora difensiva, oppositiva. Occorre quindi che si domandi:

  • Come sto affrontando questa persona?
  • Sono assertivo, frettoloso, troppo conciliante…?
  • Sono ironico? L’ironia in una relazione asimmetrica è quanto di più negativo si possa mettere in atto.
  • Temo di non essere capito? Perché?
  • Di cosa voglio discutere? Qual è il contenuto, l’oggetto del nostro incontro?
  • Cosa provo nei suoi confronti? Avversione? Empatia? Compassione?

In uno dei tanti corsi svolti nelle nostre scuole proprio per migliorare la comunicazione scuola/famiglia, già un po’ di anni fa, uno dei conduttori, una psicologa di formazione sistemica, aveva affermato che come insegnanti più che empatici occorrerebbe essere compassionevoli. Allora stupì molti insegnanti l’uso di questa parola, che non rientra frequentemente nel nostro vocabolario di occidentali (per quanto i richiami ai valori del Cristianesimo, quale fondamento della nostra civiltà, siano piuttosto frequenti). Ci veniva spiegato che non è pietas e non è empatia. È qualcosa di più; ha a che fare con un’accoglienza dell’altro più profonda e più meditata, rimanda ad una comprensione del proprio “pathos” e di quello altrui, comporta anche perseveranza (vivere con-passione) nel voler raggiungere un obiettivo. Nel nostro caso la crescita, il benessere di quel bambino, di quel ragazzo, ed in fondo anche la nostra crescita personale.

Di compassione ci parla Daniel Goleman nel ricordarci che la radice dell’al­truismo sta nell’empatia, nella capacità empatica di leggere le emozioni, percepire le esigenze e la disperazione altrui, richiamando contem­poraneamente la necessità che ciascuno consegua quegli atteggiamenti mo­rali dei quali i nostri tempi hanno grande bisogno: autocontrollo e compassione. Altri elementi, questi, fondativi di un nuovo umanesimo.

Troviamo, inoltre, un’accezione simile nel curricolo della Philosophy for Children di Mattew Lipman là dove sottolinea la necessità che l’educazione miri alla formazione di un pensiero concepito come la combinazione di pensiero logico, di pensiero creativo, ma anche di pensiero valoriale o caring (la compassione in rapporto ai valori da perseguire), che ne costituisce il terzo prerequisito. Esso consente di riflettere sulla propria esperienza, sempre colorata emotivamente, e sulla base di consapevoli valori (morali, etici, politici, religiosi…). La scuola può formare un pensiero siffatto se tale pensiero appartiene ai suoi educatori.

Di Rosa Armocida e Elvio Mattalia, A scuola contromano, Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 9788866778981_0_0_282_75.jpgArmando Editore