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Oggi ho la consapevolezza che mi è stato tolto qualcosa…

Testimonianza di Angela Capirchio a cura di Costanza Saccoccio

La casa in cui sono nata era nel centro storico del paese, priva di strada carrozzabile; per me, disabile, non era quindi possibile uscire con una carrozzina. Mio padre non l’aveva neanche chiesta perché tanto non avrei potuta usarla. Così ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in casa, senza poter frequentare la scuola e senza potere mai andare da nessuna parte. Poi i miei genitori, che avevano della terra nella periferia del paese, hanno pensato di costruire una casa per me agibile. Ci siamo trasferiti nel 79, quando io avevo 17 anni.
Allora mio padre ha fatto domanda per avere una carrozzina normale, ma per alcuni anni non l’ho usata molto; la mia vita si era svolta all’interno delle mura domestiche e mi era difficile aprirmi al mondo. Questo è avvenuto più tardi. Ancora più tardi sono riuscita ad avere una carrozzina elettrica, dopo una dura e lunga battaglia.
Appena sono entrati in commercio i televisori i miei genitori hanno fatto sacrifici e ne hanno comprato uno quando ancora erano pochi a poterselo permettere. Lo avevano comprato per me non solo perché potessi seguire dei programmi, ma anche per farmi stare con gli altri. Le case in cui c’era un televisore, infatti, diventava luogo di incontri dei bambini e dei grandi del quartiere e così anch’io potevo avere momenti di aggregazione. Mia madre era molto orgogliosa di vedere che i sacrifici per comprarlo servivano a farmi vivere un po’ come e con gli altri. Io ho cominciato ad appassionarmi allo sport proprio attraverso il televisore e lo seguivo ogni domenica.
Fino a 30 anni non ho frequentato alcuna scuola. Sembrava scontato per tutti che io non potessi andarci.
Avevo imparato a leggere da sola guardando i fotoromanzi. Mi piaceva particolarmente Franco Gasparri e per seguire lui ho cominciato a riconoscere le lettere. Per un breve periodo era venuto un volontario, per insegnarmi almeno a leggere, ma spesso mi nascondevo per la timidezza: cosi lui rinunciò al suo buon proposito.
Anche se non avevo frequentato la scuola, avevo però preso la licenza elementare. Mia sorella più piccola di me di tre anni frequentava le elementari ed io la guardavo con curiosità mentre svolgeva i suoi compiti per casa. Ho sempre desiderato imparare delle cose ed ero molto interessata soprattutto all’italiano. Così ho cominciato spontaneamente a fare gli stessi compiti assegnati a mia sorella per casa. Il suo maestro era informato del mio lavoro ed era d’accordo, così quando finivo il quaderno glielo mandavo; lui lo correggeva e mi dava una valutazione.
Alla fine ho sostenuto gli esami in casa. Era venuto il maestro di mia sorella con altri insegnanti ed io avevo cosi preso la licenza. All’epoca io ero molto timida perché non ero abituata a parlare con persone al di fuori della famiglia e del vicinato, perciò riuscire ad affrontare e superare quest’esame era stato per me un vero successo. Ho cominciato ad avere un po’ di fiducia in me stessa
Avevo la licenza elementare ma non avevo mai ascoltato delle lezioni, mai partecipato ad un lavoro di classe, perciò non ero ancora molto brava e soprattutto avevo il grande desiderio di imparare a scrivere. Il maestro mi ha proposto di frequentare le medie, ma io abitavo ancora nella parte storica del paese e questo non era possibile.
Nessuna istituzione si è fatta presente, si è preoccupata di trovare un modo per superare gli ostacoli che mi impedivano di usufruire del diritto all’istruzione. Eppure fin dal 71 le persone disabili erano state accolte nella scuola comune e, dal 77, erano anche previsti un insegnante di sostegno e un programma individualizzato. Con la scusa che la mia casa non era agibile per macchine e carrozzine, io sono stata dimenticata.

Io non ho chiesto nulla, non ero ancora consapevole dei miei diritti e non ero pronta a far presenti le mie esigenze; neanche i miei genitori si erano preoccupati di informarsi su quali fossero i miei diritti; erano persone di origini umili, a loro volta con poca istruzione, lavoravano molto, si preoccupavano di far stare bene noi figli e non si ponevano altre domande. Erano abituati a farsi carico di tutto e non si aspettavano nulla dalle istituzioni. Progettavano di costruire, appena possibile, una casa adatta a me, una casa senza barriere che mi avrebbe permesso di vivere
Così io ho imparato ad arrangiarmi e a fare da sola.
Mi piaceva tenere un diario, così, finite le elementari, ho cominciato a scriverne uno. Da allora ho sempre scritto un diario fino alla nascita di mio nipote 11 anni fa.

Ad un certo punto della mia vita, quando avevo già cambiato casa, sono andata in crisi; non ero contenta di come stavo vivendo, volevo fare qualcosa per vivere bene perché non mi interessava semplicemente sopravvivere.
Qualcuno mi aveva parlato dei corsi serali per prendere la licenza media che si tenevano in un paese vicino dove insegnava un professore amico di mia sorella e mio cognato. Io allora non lo conoscevo. C’era il problema del trasporto e lui si è offerto di accompagnarmi, visto che lui doveva andarci. E’ stata per me una persona speciale, ha cambiato la mia vita. Anche il viaggio era un momento molto bello.
Così ho sostenuto l’esame di licenza media solo nel 92, quando avevo 30 anni.

L’esperienza dei corsi per lavoratori è stata per me molto significativa e mi ha fatto maturare molto.
A scuola c’erano persone di tutte le età, da diciottenni a sessantenni con esperienze diverse. Il corso serale è molto pratico, non ti sentivi umiliato se non sapevi fare qualcosa. Io ero brava in tante cose e non mi sentivo diversa. Non c’era tanto da studiare. Ci sentivamo tutti ignoranti perché facevamo la scuola dei lavoratori. Un giorno il professore ci ha portati a un convegno tenuto nello stesso istituto: parlavano i responsabili regionali per l’istruzione e abbiamo notato che alcuni relatori facevano grossi errori grammaticali nel parlare; siamo rimasti meravigliati e nello stesso tempo ci siamo incoraggiati. Se loro che avevano studiato e avevano delle responsabilità parlavano male anche noi che frequentavamo solo un corso per lavoratori potevamo sbagliare senza sentirci da meno.
Alla fine abbiamo fatto un esame con testo e interrogazione. Siamo stati aiutati ed è andato tutto bene.

Finito il corso serale di un anno, il professore, a mia insaputa, ha detto a mia sorella che potevo andare alle superiori, l’istituto magistrale, che era in un altro edificio del corso serale che avevo frequentato. Io vedevo tutto un problema, ma ne avevo un grande desiderio. Così ci sono andata nonostante il parere contrario dei miei genitori. Loro temevano che non ce l’avrei fatta ad affrontare tutti i problemi, volevano proteggermi.
Io sapevo che avrei incontrato non poche difficoltà. Ero consapevole di non avere delle basi solide per affrontare le superiori; inoltre avevo timore di non trovarmi bene, di non essere accolta. La scuola superiore, infatti, non era abituata e non era preparata ad avere studenti disabili. Se non lo si conosce il disabile spaventa.

Le persone non sanno come comportarsi con un disabile e si preferisce evitare l’incontro. Il dirigente, infatti, aveva provato a scoraggiarmi e a mettere delle difficoltà, ma poi queste si sono superate. Da parte mia cercavo di non creare problemi, di non avere bisogno di aiuto. Quando poi ho cominciato a stabilire rapporti con le compagne e, se avevo bisogno, mi facevo aiutare da qualche amica.

L’insegnante di italiano e latino mi piaceva, non era fiscale e concepiva la scuola come luogo di vita, come luogo in cui maturare. Negli anni si è creato con lei un rapporto personale bellissimo e ancora oggi ogni tanto viene a trovarmi. Quando entrava in classe al mattino prima si affrontavano le problematiche della classe poi si faceva lezione. Lei mi ha dato tanto, mi ha valorizzata molto. Ricordo che mi chiedeva di leggere i miei tema a alta voce, ma appena cominciavo subito me lo prendeva (altrimenti lo “rovinavo” diceva lei) e lo faceva lei, lo usava come modello per far io non volevo leggere il tema, cominciavo poi lei me lo prendeva e lo leggeva ad alta voce, lo usava come modello per far capire alla classe come articolare un testo e non andare fuori argomento.
Con i compagni, a parte l’imbarazzo iniziale, ho vissuto un’esperienza bella. Io avevo il doppio della loro età perciò i miei interessi erano diversi. Tutta la mia storia era stata diversa. I loro discorsi mi incuriosivano, sentivo che a volte dicevano sciocchezze, che parlavano di ragazzi, che si facevano scherzi. Mi sarebbe venuto spontaneo fare la grande, fare delle prediche sui loro comportamenti, invece mi adeguavo ai loro discorsi, stavo al gioco; ora so che in questo modo recuperavo un’adolescenza che non avevo vissuto.
Il terzo anno è stato il più duro, dicono infatti che sia il più difficile. A Dicembre sono andata in crisi . Non facevo altro che studiare. Avevo tante difficoltà, ad esempio dovevo fare il latino senza sapere bene la grammatica italiana. Perciò dopo Natale non volevo più tornare. I miei insegnanti sono stati molto bravi e mi hanno chiamata. Mi hanno detto che si poteva fare un programma specifico per me. In questo modo mi hanno incoraggiata a riprendere. In realtà mi sono poi accorta che facevo le stesse cose degli altri, ma mi sentivo sostenuta e incoraggiata a non mollare.
Andavo a scuola con un trasporto privato pagato in parte dal comune. Nella scuola mi muovevo grazie alla carrozzina elettrica che lasciavo fissa lì. E’ allora che ho cominciato ad usarla: prima l’avevo ma non la usavo perché non ne avevo modo.
Così ho frequentato per cinque anni, compreso l’anno integrativo e mi sono diplomata. E’ stato un impegno molto grande per me che non avevo molte basi. Mi è costata molta fatica, ma mi ha fatta crescere molto e mi ha resa anche più espansiva e aperta.

Ora seguo nei compiti una ragazzina che frequenta le elementari e ne sono molto contenta. Mi fa piacere sentirmi utile ed avere qualcosa da dare. Alla mia allieva cerco di comunicare il senso delle cose, il senso della vita più che le regole grammaticali, anche se sono importanti pure quelle. Questo per me è il valore della scuola. Deve attraversare la vita e non esserne separata.
Finite le magistrali il professore che avevo avuto alle medie mi ha detto che era ora di andare all’università. Era possibile farla on line. Io ero piuttosto stanca per i cinque anni di studio intenso e non sapevo ancora usare il computer, perciò ho messo da parte l’idea.

Inoltre avvertivo che per me era ora di entrare nella vita concreta. Ero vissuta sempre in casa e gli ultimi anni sui libri, volevo scoprire il mondo.

Ho cominciato tutto troppo tardi. Avrei anche potuto fare l’università, avrei anche potuto lavorare. Invece ho dovuto fare delle scelte anche legate all’età e all’energia. Non ho ad esempio lottato per il diritto al lavoro perché quando avevo energia non avevo istruzione e forza di carattere. Ad un certo punto il Comune mi aveva proposto di fare la segretaria da casa. Mi avrebbero mandato del lavoro da fare al computer ma solo quando ne avevamo bisogno perciò dovevo essere sempre reperibile. Io ho rifiutato perché voleva dire relegarmi in casa e anche perché non ero ancora brava con il computer. Se avessi frequentato la scuola nei tempi giusti, sarei cresciuta prima. Ho cominciato tutto molto tardi, ma non importa; la mia vita oggi è ricca sia di affetti sia di impegni. Ho imparato ad utilizzare bene il computer che mi tiene in contatto con tante persone; riesco a farci anche tanti lavori creativi che mi danno molta soddisfazione.

Oggi ho la consapevolezza che mi è stato tolto qualcosa che mi spettava come persona.

Ho anche capito però che non bastano le leggi a favore della disabilità; ci vuole più civiltà, ci vuole più cultura, ci vuole l’abitudine a vivere accanto ai disabili per poter scoprire che prima di essere disabili sono persone che hanno bisogno di essere supportati in tante cose ma che hanno anche tanto da dare.

Dopo la scuola, il mio impegno sociale

Finita la scuola mi sono sentita improvvisamente con tanto tempo a disposizione. In casa ero libera, mi sentivo bene, ma  non facevo niente ed io  avevo  una grande voglia di impegnarmi in qualcosa. Ero ormai in grado affrontare il “fuori” perché la scuola mi aveva abituata agli altri; l’istruzione mi aveva resa più forte, capace di esprimere e far valere il mio punto di vista.

Così ho cominciato a frequentare una cooperativa sociale, Arteinsieme,  che era sorta nel paese, con la collaborazione di tanti volontari. E’ stato l’inizio del mio impegno sociale. Questa cooperativa si occupava di ragazzi disabili, per i quali aveva creato un centro diurno, si preoccupava di creare situazioni e progetti  di lavoro sia per disabili sia per persone disagiate. Successivamente ha cominciato a collaborare anche con le scuole.

La cooperativa e i suoi volontari (alcuni ancora oggi miei grandi amici) l’avevo scoperta nel periodo della mia crisi esistenziale e mi ha aiutato moltissimo a rapportarmi con i miei coetanei, con gli altri disabili e ad uscire da casa per i campi estivi al mare o a passeggio e  in seguito questa cooperativa, quando frequentavo le magistrali, mi ha mandato a casa una persona per aiutarmi nei compiti.

Era stata proprio la responsabile della cooperativa ad andare a parlare con l’insegnante di italiano quando io volevo abbandonare la scuola; era stata lei a suggerire l’idea di chiamarmi e di propormi un programma individualizzato. Soffriva molto per questo mio abbandono e si è data da fare.

Così in questo periodo mi sono impegnata a tempo pieno nella cooperativa e per alcuni anni ho fatto anche  parte  del consiglio amministrativo. Ero riconoscente alla cooperativa perché mi aveva tirata fuori di casa; era per me un riferimento,  che mi aveva permesso di stringere amicizie importanti, di cominciare ad  andare in vacanza. La responsabile mi ha proposto di fare un progetto per lavorare in biblioteca, dove infatti ho lavorato per 6 mesi: io dovevo catalogare i libri, ma ero sempre a contatto con la gente e questo mi piaceva molto: sentivo di essere utile e di essere capace.

Per uscire di casa però ero in difficoltà. Abito infatti in periferia e per andare in paese bisogna attraversare un pezzo di Appia senza alcun marciapiede. Dovevo camminare con la carrozzina su una strada piuttosto stretta dove le macchine corrono perché sono ancora fuori paese.  Mia madre non voleva che andassi da sola perché era preoccupata. Così in genere uscivo accompagnata da qualche nipote o da una signora che conoscevo. Da sola mai.  Non sempre però c’era qualcuno disponibile ad accompagnarmi; man mano che crescevano i nipoti avevano i loro impegni e i loro interessi e quindi o non potevano o non volevano.

Io non volevo assolutamente rinunciare ad uscire.

La mia infanzia e adolescenza le avevo trascorse in casa e, ora che avevo finito la scuola, non volevo tornare a quel tipo di vita. Sentivo il bisogno di autonomia e il desiderio di incontrare persone.

Così ho cominciato a imbrogliare mia madre. Le dicevo che andavo con una signora che conoscevo o con una mia nipote. Invece  andavo in giro da sola.

Facevo piccoli giri, tornavo in fretta. Le mie sorelle lo sapevano e mi appoggiavano. Con questo sostegno mi sentivo più tranquilla.

Dopo un po’ di tempo ho detto a mia madre che andavo da sola. Lei voleva proteggermi perché questo è un posto  molto pericoloso, dove nel passato sono avvenuti incidenti anche gravi. Piano piano, però, ha cominciato ad avere fiducia e ha provato grande soddisfazione quando un giorno lei stessa mi ha mandata a prendere le medicine in farmacia.

Io non avvertivo il pericolo della strada che dovevo percorrere, ma tutti mi dicevano che c’era pericolo, così io camminavo nella cunetta e non sull’asfalto. Non ero l’unica ad avere questo problema perché negli anni questa periferia, un tempo disabitata, ha cominciato a popolarsi di bambini ma anche di persone anziane. Nessuno però andava a piedi proprio perché pericoloso. Non si vedeva una carrozzina con un bambino , non si vedevano  persone anziane camminare da sole. I bambini erano accompagnati a scuola o in parrocchia o altrove in  macchina non solo per la distanza ma anche per il pericolo.

Così è nato un  comitato della zona  formato da me, da un insegnante attiva e altre persone che si aggregavano soprattutto quando bisognava andare in comune.

Nel 2002  abbiamo raccolto 160 firme con la richiesta al comune di fare un marciapiede

Io ho portato  personalmente questa richiesta in comune e l’ho fatta protocollare. In precedenza ero già andata a parlare con sindaco e assessore; questi mi  dicevano che si poteva fare e che l’avrebbero fatto. Ma il tempo passava e  nulla cambiava. Il problema era antico, era nato dal momento in cui la zona aveva cominciato a popolarsi. La questione però era sempre stata trascurata dalle autorità.

Dal 2002 il marciapiede è stato realizzato  nel 2011.

Ci sono stati tantissimi incontri in comune. Abbiamo fatto tante proteste.

Nel 2004 abbiamo preparato dei cartelloni  con frasi e foto che indicavano la pericolosità della strada e li abbiamo collocati in punti strategici del paese per informare la cittadinanza e avere quindi sostegno.  Sono stati pubblicati diversi articoli sui giornali, sempre per coinvolgere l’opinione pubblica e fare pressione sulle autorità.  Sindaco ed assessore dimostravano sempre la loro disponibilità a risolvere il problema ed avevano anche stanziato dei soldi, ma facevano presente le difficoltà:  non c’erano spazi laterali alla carreggiata e  la competenza per la strada in parte non era del Comune ma dell’Anas, (che in realtà, ho scoperto dopo, non avrebbe avuto problemi a dare l’autorizzazione). Il vero problema era che i proprietari dei poderi adiacenti alla strada dovevano cedere una porzione di terreno, una sciocchezza, poco più di un metro, ma uno dei proprietari non era disponibile a cedere. Ad un certo punto i responsabili mi hanno detto che volevano risolvere il problema diversamente, ricoprendo un fossato. In quelli anni però, in seguito ad una catastrofe provocata proprio da un fossato coperto che non aveva lasciato defluire le acque piovane, era  stata fatta una legge per cui non si potevano coprire i fossati. Perciò questa proposta fatta per aggirare gli ostacoli esistenti, è caduta nel vuoto.

Nel 2005 ho anche parlato con Marrazzo, allora presidente della Regione Lazio,  venuto in paese per altri problemi. Lui ha preso le carte e ha detto che le avrebbe lette. Se le è  portate, ma non è successo niente.

La verità era che c’erano degli interessi di una piccola azienda ed altre persone che non volevano che il marciapiede passasse davanti al loro ingresso e quindi facevano opposizione e non volevano cedere il terreno necessario

Io ero molto  scocciata. Andavo in comune anche da sola; a volte persone non della zona che lo sapevano  venivano con me.

I vari sindaci sono stati sempre a scaricare il problema: non ci volevano tanti soldi, ma accusavano l’azienda.

Nessuno voleva prendersi la responsabilità.

Quando c’erano le elezioni mi davano l’ok. Così non potevo parlare, non potevo denunciare; peccato, perché ero diventata coraggiosa e bravina a parlare.

Mi facevo prendere in giro ma ne ero consapevole. Sapevo che non dovevo mollare e dovevo andare avanti.

Alcune persone, in particolare l’insegnante che era con me nel comitato mi incoraggiava.

Non sopportavo la falsità.

Quando andavo in comune mi dicevano cose che non risultavano vere. Facevano progetti e tutto si fermava lì, Secondo me,  alcuni politici semplicemente non volevano mettersi contro i proprietari dell’azienda. E pensare che  frequentavo una delle proprietarie  perché eravamo nel consiglio pastorale. Sono andata personalmente a parlare con lei visto che ci conoscevamo e ci trovavamo insieme  ai convegni. Sono andata per non essere orgogliosa. E’ riuscita ad umiliarmi, mi ha trattata così male  che, quando sono uscita, non riuscivo neanche a guidare la carrozzina elettrica. Mi ha addirittura accusata di voler far fallire la fabbrica, con le mie pretese. All’inizio ho pensato  che avesse ragione. In realtà avevo detto qualche parola in più e lei era diventata  aggressiva.

Ho scritto al  parroco per riferirgli quello che avevo guadagnato da quell’incontro. In quel periodo infatti ero molto impegnata in parrocchia ed ero anche  segretaria della parrocchia. Mi è costato scoprire diverse delle persone che pensavo di conoscere. Mi sono sentita ferita, colpita dietro.

La situazione si è sbloccata solo quando nell’azienda è cambiata la gestione .

Finalmente il marciapiede si è realizzato.

Secondo alcuni, il marciapiede  è piccolo, ma l’importante  è la sicurezza.

Ci sono  tanti bambini in zona e io lo volevo per loro, non solo per me;in fondo io mi ero abituata a passare nella cunetta.

Ora  ho capito il pericolo della strada e il vantaggio di questo marciapiede . Non sarei mai rimasta fuori fino a tardi; con il buio le macchine non mi avrebbero vista. Ora vedo  anziani, bambini che vanno con la bici. Il vantaggio è visibile e non è solo per me, ma per tutti gli abitanti della zona.

Quando giro per il paese vedo marciapiedi bellissimi in posti dove non c’è molta utilità perché non ci va molta gente. Purtroppo dove abita la  gente importante le cose si fanno, gli ostacolisti superano.

Questa vicenda mi ha insegnato che nessuno si fa carico di quello che non lo tocca. La gente è incostante.

Quando la gente ha visto i lavori ha cominciato a dire  che bisognava metterci una  targhetta con il mio nome. In comune ormai tutti dicevano “ per il tuo marciapiede”, io dicevo che non era solo per me, ma per tutti gli abitanti. Io insistevo tanto perché lo vedevo così, per tutti, me compresa.

Ora guardando indietro nella mia vita mi rendo conto che nulla mi è stato dato con facilità anche se era un mio diritto. Tutto mi è costato molta fatica. Io stessa ho acquisito solo nel tempo la consapevolezza dei miei diritti di persona.

Quando ho compiuto 21 anni, ad esempio, avrei avuto diritto alla pensione. Erano passati due anni e ancora non ricevevo nulla. Io volevo avere un minimo di autonomia economica perché non osavo chiedere nulla ai genitori che lavoravano tanto per mantenere la mia numerosa famiglia. Volevo anche solo poter spedire delle lettere alle mie amiche o potermi comprare qualcosa. Così ho scritto al Presidente Pertini. Il presidente mi ha risposto subito dicendo che mi avrebbero chiamata per la visita medica. In effetti così è stato: sono stata subito dopo chiamata per la visita e mi hanno assegnata la pensione.

La fatica che ho dovuto fare senza dubbio mi ha aiutata a maturare , a diventare più forte, ad imparare ad affrontare le situazioni. Non dovrebbe però essere così. Invece di maturare avrei potuto soccombere, avrei potuto ritirarmi nelle mura protettive della mia casa e della mia famiglia.

Per mia fortuna non è stato così.

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Paola Pizarro

    Davvero toccante questa testimonianza di Angela, una storia dura e cruda ma con un lieto fine: la vittoria di aver completato gli studi, una strada agibile per TUTTI non solo per lei, la pensione e sicuramente tante altre vittorie che sono state vinte con la tenacia e perseveranza di chi non si arrende mai.
    Con il racconto possiamo far conoscere questa e tante altre storie affinché non restino chiuse e nascoste, rilegate in un angolo. Solo così possiamo far sapere a tutti queste storie di vita che sono d’incoraggiamento per tutti noi, non con lo scopo di creare compassione ma consapevolezza che anche loro hanno da insegnarci qualcosa e che noi abbiamo il dovere di aiutare e parlare!
    FORZA ANGELA!!!
    Paola

  2. support

    Ah forse era un grazie! ^_^

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