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Benessere a scuola. Come prevenire il disagio

di Rosa Armocida

Il fenomeno della dispersione scolastica è un fenomeno complesso, di cui è difficile esaminare tutte le cause per ovvie necessità di brevità. Pertanto mi concentrerò solo su alcuni aspetti relativi alla comprensione e alla prevenzione del cosiddetto disagio scolastico che può indurre i ragazzi ad allontanarsi temporaneamente, ripetutamente, saltuariamente, definitivamente dalla scuola.

Innanzitutto il fenomeno rimanda allo specifico sviluppo evolutivo, alla crescita individuale dei ragazzi che manifestano chiara disaffezione nei confronti della scuola e allo stesso tempo al contesto familiare, al tipo di relazioni che lo caratterizzano, e al più ampio contesto sociale dove sviluppano il loro io sociale.

Nel testo “A scuola contromano” scritto con il collega Elvio Mattalia, i primi due capitoli sono dedicati al rapporto scuola famiglia società e all’analisi dei bisogni fondamentali a cui occorre riferirsi per un insegnamento efficace in qualsiasi ordine di scuola. Ebbene il primo bisogno da noi individuato è il bisogno di realizzazione: del proprio sé e della propria identità. Da qui occorre partire per avviare la discussione sulla prevenzione del disagio scolastico.

Una domanda allora che ci si deve porre è:” Come sta procedendo questo bambino, questo ragazzo nella costruzione della sua identità, del suo Sé?”

La seconda domanda, che segue necessariamente, è:” Come la scuola ne favorisce il percorso?”

Ed infine quali sono gli obiettivi essenziali e fondamentali che gli insegnanti devono porsi per favorire processi evolutivi equilibrati, per favorire in ultima istanza quella che noi abbiamo definito la salute mentale dei propri alunni?

Tornando alla questione dell’identità, anticipo che, oggi più che in passato, costruirla è un compito piuttosto difficile. Occorre, infatti, aver consapevolezza della complessità dello scenario sociale e culturale di riferimento. E al riguardo richiamo alcune riflessioni, sebbene in modo estremamente sintetico.

In primo luogo un riferimento va a Zygmunt Baumann e alla sua definizione di società liquida, che corre veloce, che cambia velocemente. Il nostro mondo, egli dice, è in marcia verso una società globale caratterizzata da “insicurezza, incertezza esistenziale, solitudini”, dove prevale la difesa del particolare e la scomparsa dei lega mi sociali.

Umberto Galimberti, d’altro canto, ci ricorda che in altre epoche, neppure poi così lontane, l’uomo disponeva di una cosmologia o di una metafisica stabili, che permettevano di avere idee chiare e distinte. Nella società attuale, egli dice, i valori di riferimento sono stati erosi dal paradigma tecnico-scientifico. La tecnica non si prefigge di attribuire un senso alla vita né di svelare verità, ma semplicemente ha come scopo quello di funzionare. Alla luce di ciò ogni precedente concetto come quello di natura, storia, politica, individuo, identità…andrebbe ridefinito: una sfida questa per prefigurare un nuovo UMANESIMO.

Una società, quindi, dai legami deboli, dove aumentano gli spazi delle libertà individuali, di per sé tratti positivi, se non fosse che si è largamente incapaci di gestirli in modo costruttivo in vista di una società migliore, certo più libera, ma anche più giusta, equa e solidale.

In tale contesto gli adulti, con le dovute eccezioni, non sono più in grado d’essere un modello valido ed autorevole per i giovani, poiché sono insicuri innanzitutto come individui. Oggi sta venendo meno quella distanza generazionale necessaria per processi di imitazione, identificazione, contrapposizione, ricerca dell’autonomia nella crescita e costruzione dell’identità personale. Per Massimo Recalcati gli adulti si sono persi nello stesso mare dove si sono persi i figli. Egli parla di “vaporizzazione” del padre da intendere come riduzione/ perdita della funzione normativa.

Varrebbe la pena, sempre a tale riguardo, approfondire quanto dicono autori come Giovanni Bollea o come Umberto Galimberti rispetto all’odierno diffuso “infantilismo genitoriale”, alla società centrata sul consumismo, sull’edonismo, sulla protrazione del principio del piacere fino all’adolescenza inoltrata.

Se questo è lo scenario, è comprensibile come la costruzione dell’identità personale non sia per nulla lineare.

Ma cosa intendiamo per realizzazione del Sé?

Anche qui alcuni riferimenti.

Il sé esprime la persona intera intesa come totalità che ingloba il corpo e la mente. La dimensione inconscia e quella conscia, di cui l’io è espressione razionale; è sistema complesso e dinamico, caratterizzato da stabilità/instabilità da rielaborazioni e aggiustamenti interni ed esterni nella ricerca di sempre nuovi equilibri. Il sé è l’individuo stesso ed è al contempo il modo con cui un individuo percepisce se stesso…L’identità allora, prendendo in prestito le parole di Giovanni Jervis è in estrema sintesi “riconoscersi ed essere riconosciuti”.

La questione del riconoscimento è fondamentale. Chiama in causa l’altro da sé, rimanda a come le diverse figure educative, fin dai primi vagiti, si relazionano con il bambino, come vi prestano ascolto, come rispondono ai suoi bisogni, come ne favoriscono l’autostima, la fiducia in se stessi e negli altri….

Crescere, come imparare, implica una dose di dolore, come direbbe Giorgio Blandino, che può però essere compensato da una progressiva sicurezza e fiducia nelle proprie capacità. La fatica, il dolore, l’errore ed ogni altro aspetto del crescere possono essere accettati se l’altro ci riconosce nella nostra individualità, peculiarità, unicità.

Dice Umberto Galimberti:

…se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male a scuola, l’identità che è il bisogno assoluto per ognuno di noi, si costruisce altrove, in tutti quei luoghi, scuola esclusa, dove è possibile ottenere riconoscimenti…

E’ proprio così?

Alla scuola molti, troppi ragazzi preferiscono la strada, il gruppo dei pari, le ore nei supermercati, ma anche la noia e la solitudine davanti al computer, o la veloce e “facile” comunicazione via mail con compagni “virtuali”.

E sappiamo anche che l’allontanamento. Le prolungate assenze, l’abbandono possono essere concausa di piaghe sociali quali il bullismo, la delinquenza minorile, l’abuso di droghe…

D’altro canto Pitropolli Charmet ci dice che i giovani pensano

“…che la scuola sia vecchia non solo nei metodi e nell’uso dei sussidi, nello stile relazionale e nella definizione degli obiettivi, ma sia molto conservatrice nel senso che si interessa devotamente al passato, getta sul futuro uno sguardo distratto, spesso solitamente disfattista…”

Anche questo in parte può spiegare perché molti la rifuggano.

E se ciò è vero, come penso che lo sia, gli insegnanti, responsabilmente, non demonizzino ciò che fuori della scuola i ragazzi vivono.  Occorre porsi in ascolto dei loro bisogni, delle loro emozioni, dei sentimenti, di ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in termini di comportamenti e di valori, di immagini mentali di sé e del mondo. E’ necessario comprenderli anziché svalutare ciò che può essere lontano dalla nostra cultura di adulti.

La scuola ha il compito di aiutarli ad affrontare le immancabili difficoltà e a trovare il senso delle differenti esperienze, a ”… trovare un significato alla nostra vita” come afferma Bruno Bettelheim ne “Il mondo incantato”.

Dice Carla Rinaldi:”

l’apprendimento non avviene solo attraverso la trasmissione o per riproduzione, ma si configura piuttosto come un processo di costruzione delle ragioni, dei perché, dei significati, del senso delle cose, degli altri, della natura, degli accomodamenti, della realtà, della vita…”

Trovare sensi e significati significa determinare ciò che è importante per noi, ciò che è consono con il nostro modo di essere, significa saper scegliere, avere uno stile personale.

I docenti hanno dunque un compito non facile, per quanto sopra detto. Proprio perché la società cambia così rapidamente, perché i modelli “identificatori” evolvono anch’essi, perché i limiti dei comportamenti leciti e accettabili si spostano e si distanziano….è difficile costruire identità riconosciute da sé e dagli altri,  aiutare i nostri giovani  a individuare i loro tratti caratterizzanti, il nocciolo duro che dà loro distinzione e unicità, e, allo stesso tempo, aiutarli ad adattarsi ai rapidi cambiamenti senza smarrire il loro vero sé. Eppure non ci si può esimere dal farsene carico. L’attenzione massima va dunque rivolta alla generalità degli alunni e, a maggior ragione, a chi esprime un disagio nel seguire il curricolo, nel relazionarsi con compagni e adulti, nel non trovare interessi negli apprendimenti.

Recentemente mi è stato chiesto di trattare in un incontro con un collegio docenti il tema di come la scuola dell’obbligo può diventare un luogo dove insegnare-imparare a vivere. Ebbene quell’argomento è in perfetta sintonia con quanto stiamo discutendo oggi.

Insegnare a vivere è favorire l’ascolto di se stessi, dell’altro da sé, l’acquisizione di conoscenze, che sono a loro volta strumento per costruire la propria identità, ma anche l’apertura alla continua ricerca di nuove risposte ai problemi che la vita pone. Significa formare un pensiero che sia convergente, divergente e creativo allo stesso tempo, costruire una personalità dove, secondo Bruno Bettelheim, emozione intelletto immaginazione si sostengono vicendevolmente. In altre parole si tratta di promuovere la salute mentale dei propri alunni. Nel libro scriviamo:”…star bene con se stessi” vuol dire essere divergenti, reperire soluzioni ai problemi e di conseguenza strutturare un io più equilibrato che non si esaurisce e limita nelle forme espressive dominanti, veicolate dai media, ma che si esprime mediante una molteplicità di interessi e di attività personali.”

Quanto detto vale ovviamente anche per l’adulto/insegnante se vuole, come deve, porsi come adulto colto, competente, aperto al nuovo, guida autorevole dei propri alunni, che sa tenere sempre desta la motivazione ad apprendere, non ignorando, ma neppure accogliendo tout court, acriticamente, gli interessi reali dei suoi alunni; incuriosendoli piuttosto, portandoli dentro la cultura con il suo entusiasmo di adulto e la sua passione.

Il disagio può coinvolgere anche loro, che vivono una fase molto travagliata: troppe richieste ministeriali, tante richieste territoriali, molte funzioni da svolgere, sopperendo a compiti che appartengono in primis alla famiglia…e tanta svalutazione da parte dell’opinione pubblica, scarso riconoscimento economico e via di seguito. Chi si fa carico del loro disorientamento che rischia di trasformarsi, in alcuni casi, in inadeguatezza? Il Dirigente scolastico, la Direzione Regionale, il Ministero? A loro sicuramente. Anche se è lo stato giuridico dell’insegnante che va rivisto nella sua totalità a partire dall’orario fino ad una adeguata retribuzione.

Se oggi i docenti non “fuggono”, come alcuni ragazzi, è perché sono adulti professionalmente impegnati, ma possono deresponsabilizzarsi o deprimersi, o adagiarsi in un sapere che non si rinnova e che allontana sempre più i nostri ragazzi dal trovare interesse per la scuola.

Si tratta anche per loro di ritrovare, dentro la complessità odierna, il senso e il significato profondi ed insostituibili del loro lavoro. C’è il tempo necessario per fare ciò?   Sì, purché non ci si perda in un mare magnum di una programmazione omnicomprensiva, ma cercando sempre di essenzializzare  il curricolo, definendo contenuti e obiettivi essenziali;  e nella relazione educativa favorire la salute mentale, ovvero il benessere di alunni e insegnanti.

Contributo per il convegno sulla dispersione scolastica organizzato dal comune di Buttigliera. Aprile 2016