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LA PSICOLOGIA DELL’ARTISTA. Il mondo interno: dal ritratto all’autoritratto. (1)

di Elvio Mattalia

LA RAPPRESENTAZIONE DELLA PERSONA

Il desiderio di rappresentare immagini è da sempre presente nell’uomo (l’uomo preistorico con i suoi graffiti o il bambino piccolo che prima ancora del linguaggio riesce ad esprimersi con il disegno). E la prima immagine in ogni caso è sempre quella di se stesso (per il bisogno di descriversi nel proprio contesto di vita) o di descrivere l’altro/gli altri (per differenziare il rapporto amico/nemico). In particolare ritrarre in qualche modo la persona cui si è affezionati, la mamma, è per il bambino il modo di conservarla dentro di sé, di memorizzarla, di averla sempre presente.
Una forma primaria di ritratto o autoritratto può essere l’impronta lasciata su una superficie: la mano (vengono in mente subito le mani e i piedi dei divi davanti al Chinese Theater di Hollywood), la figura intera ( la Sindone).
Quando pensiamo alla figura umana più immediate sono l’ombra o il riflesso nello speccho.
In proposito Otto Rank ( in Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore) ci dice:

l’ombra, indivisibile dall’uomo, diventa una delle prime “ oggettivazioni” dell’anima umana… tutte le popolazioni primitive credono che l’anima dell’uomo sia una copia esatta del corpo, riconosciuta prima di tutto nell’ombra”

La raffigurazione del ritratto è legata innanzi tutto al desiderio di preservare la propria identità, di non perderla… non possiamo non richiamare in questo senso l’immagine funeraria (dipinta, scolpita, fotografata) che in fondo “cerca di trattenere” la persona mediante la sua rappresentazione.
Se la funzione psicologica del ritratto o dell’autoritratto è quella di salvaguardare la persona occorre evidenziare che in realtà si “fissa” l’immagine in quel momento perché può trattarsi di un momento importante (carica raggiunta o rivestita, matrimonio, desiderio di lasciare alle generazioni successive l’immagine di sé che si vuole tramandare …)… ma terminato il ritratto la persona subito dopo cambierà, quindi il ritratto è un paradosso da questo punto di vista: conserva l’immagine solo di quel momento specifico. Tutto ciò è poi particolarmente evidente se utilizziamo la fotografia e se si tratta di una fotografia “importante” sappiamo quanto la posa può tradire la naturalezza della persona: a volte addirittura non ci riconosciamo in essa e ci vediamo/sentiamo diversi da come gli altri ci percepiscono.

Il ritratto, quando l’artista cerchi di darne una raffigurazione coerente con quanto la persona gli trasmette, potrebbe mostrarci aspetti particolari della persona ritratta che non avevamo mai notato; d’altronde l’arte cerca sovente di interpretare la realtà, di trasmettere letture interpretazioni di fatti o, come in questo caso, di persone, di sottrarle all’incessante trascorrere del tempo..

A proposito del”fissare l’immagine in quel momento”, cui sopra si accennava, M. Recalcati  neLa Repubblica del 28/8/2016, per quanto concerne la fotografia ci dice che essa:

Immortala non tanto l’evento, ma la nostra presenza all’evento il quale, di conseguenza, viene relegato sullo sfondo sul quale si disegna la nostra immagine. 

Sempre in relazione alla fotografia, in un articolo del supp. D di La Repubblica del 7/5/2016 intitolato “Che cos’è un autoritratto ai tempi del social network?”, Barbara Casavecchia ci dice che

...oggi ci specchiamo in versioni di noi stessi costruite ad uso e consumo dei social media, dove l’identità è determinata dalla somma di interessi, amici, like, emoji e clic ossessivamente replicati su schermi e tastiere.

Si tratta in effetti di un esacerbato narcisismo che postula una continua sovraesposizione di immagine (sovente cercando di migliorala con gli artifici che la tecnologia ci offre).

ARTISTA E MODELLO
A un primo livello si potrebbe pensare a ritrarre una persona nel modo più realistico possibile, ma in effetti nel ritratto giocano due livelli, sempre presenti, che in qualche modo rendono impossibile questa ricerca di verosimiglianza. Da un lato chi vuol essere ritratto cercherà in qualche modo di mostrarsi al meglio, posando nel modo che ritiene più consono, assumendo un atteggiamento e uno sguardo che ritiene più adeguati a rappresentarlo e con ciò predisponendosi “in un certo modo” a farsi ritrarre. Dall’altro l’artista anche se oggettivamente “abitato “ dal volere di essere il più oggettivo possibile, ogni volta che si trova di fronte al suo modello cercherà di conoscerlo meglio per rappresentarlo nel modo più consono, ma con ciò, sottilmente, cercherà di proiettarsi nel modello per capirlo più in profondità e così renderne il più possibile l’identità; in questo modo, in realtà, si allontana da una rappresentazione puramente oggettiva a favore di una “lettura” personalizzata della persona da ritrarre.

Entro certi limiti potremmo dire che l’artista è in bilico, costantemente, tra le leggi della fisiognomica che conosce bene, l’impegno a rispettarle e l’ “interpretazione”del modello man mano che lo ritrae e conosce perché in fondo sente che il suo lavoro ha più senso e significato nel momento in cui riesce a far emergere l’identità profonda della persona ritratta pur con attenta cura delle leggi della rappresentazione (pittorica, scultorea, fotografica). C’è indubbiamente in queste operazioni anche proiezione dell’io dell’artista nel sul modello che “serve” in ogni caso a creare un ritratto più personalizzato, vissuto.

A volte nella persona ritratta si interpreta, proietta qualcosa di sé. Freud aveva ipotizzato, ad esempio, che nella Monnalisa di Leonardo, nel suo sorriso, Leonardo avesse riproposto, cercato di riprodurre il sorriso di sua madre. Nel pittore che guarda il modello è infatti ovvio che si stabiliscano inevitabilmente delle associazioni con le figure della sua storia personale.

Ricordiamo cosa ci dice ad esempio Van Gogh del ritratto del dottor Gachet.

Ho trovato nel dottor Gachet un vero amico e anche qualcosa come un nuovo fratello, tanto ci assomigliamo fisicamente e anche moralmente. E’molto nervoso e bizzarro anche lui

 (Tutte le lettere di Vincent Van Gogh, Silvana, Milano 1959, vol. III ).

In questa dimensione potremmo dire che proiettando qualcosa di sé nel modello il ritratto in parte funge anche da specchio dell’artista. Addirittura, come afferma Basil Hallward, un personaggio di Oscar Wilde nel suo famoso romanzo:

… ogni ritratto dipinto con emozione è il ritratto dell’artista, non del 

modello. Il modello non è altro che un incidente, un’occasione. Non è lui a essere rivelato dal pittore; è il pittore che rivela se stesso sulla tela dipinta ...

O.Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli).

Un interessante elemento all’interno di queste dinamiche è dato anche dal committente che non sia il modello stesso: il gioco delle aspettative e delle proiezioni si complica.
Un ulteriore elemento da considerare è che specialmente nelle Accademie il modello non è importante dal punto di vista dell’implicazione psicologica dell’artista che lo sta utilizzando per la sua esercitazione o per le sue finalità creative.

IL RITRATTO DI SE’
Un interessante aspetto psicologico della ritrattistica è dato anche dall’indubbia aspettativa di chi si fa ritrarre, che gioca nel quadro il suo aspetto narcisistico, che ritiene ritrarsi valga la pena della posa poiché 1) ci si considera “belli” o 2) vuole con il ritratto affermare, rinforzare la sua immagine.

Nel 1° caso si cerca di dare di sé la migliore immagine possibile (capita, poi, specialmente per le pose fotografiche, di constatare che la foto ci ha un po’ deluso rispetto alla nostra aspettativa). Interessante da questo punto di vista il caso di Ugo Foscolo che, preoccupato della sua immagine, si fece fare molti ritratti e che fu soddisfatto solo da quello di F.X. Fabre esposto ora alla galleria degli Uffizi.

Al 2° caso possiamo ricondurre i personaggi di potere (ad es.Napoleone) o addirittura chi, come il Papa Niccolò V, si fece probabilmente ritrarre dal Beato Angelico vestendo i panni di San Nicola nel polittico di San Domenico.

Con bisogno affermativo, quasi di firma dell’opera è il caso invece del pittore che inserisce se stesso nella rappresentazione (Caravaggio che si rappresenta nella testa tagliata di Golia, nel quadro a Villa Borghese o Annibale Carracci che ritrae se stesso in un quadro dentro il quadro in un dipinto all’Ermitage)

VISIONE DEL RITRATTO
Potremmo dire che tanto più l’artista avrà saputo descrivere nella rappresentazione della figura un’emozione tanto più sarà possibile per chi la guarda e ha provato lo stesso stato d’animo ritrovare nell’opera la medesima sensazione: pensiamo alle forti emozioni suscitate dalla Pietà o dal Mosè di Michelangelo; proprio le emozioni provate nella nostra vita ci permettono di entrare in empatia con quanto vediamo. E questo capita anche in situazioni in cui le forme del rappresentare non sono perfette come nel caso dei “Prigioni” Michelangelo …pensiamo all’ “Urlo” di Munch.

E l’emozione può giungere a far innamorare di sé chi guarda, pensiamo alle figure botticelliane, alle modelle dei preraffaelliti (un viso, uno sguardo, una chioma…) che probabilmente richiamano alla mente e al cuore sentimenti provati per persone che abbiamo amato. Un caso letterario esemplificativo ci viene offerto nel racconto di W.Jensen Gradiva dal delirio del personaggio dell’archeologo Norbert Hanold, che si innamora di una fanciulla ritratta in un
bassorilievo.

NOTA
Il testo di questo capitolo, per quanto concerne la parte figurativa, è una rielaborazione sintetica del testo di Stefano Ferrari, La Psicologia del Ritratto nell’arte e nella letteratura, Laterza, Bari 1999, cui si rimanda per una lettura approfondita. Altrettanto interessante è, rispetto ai risvolti letterari, il testo di Patrizia Magli: Il volto raccontato. Ritratto e autoritratto in letteratura, Cortina, Milano 2016

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