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Fuori da ogni etichetta, incontrare le persone

di Emilia de Rienzo

«Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che Burton chiama “institutional neurosis” e che chiamerei semplicemente istituzionalizzazione); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.»

Franco Basaglia in La distruzione dell’ospedale psichiatrico, 1964

Non è lontano il tempo in cui molti individui vivevano in manicomi che erano vere e proprie istituzioni totali, reclusi dentro mura invalicabili perché ritenuti “pericolosi socialmente”.
Non persone bisognose di attenzioni e di cure, ma di essere isolate perché possono nuocere agli altri. E’ così che si risponde ancora adesso, purtroppo, a chi “in-quieta” la nostra vita che non deve essere troppo turbata da eventi che escono dall’ordinario, da una routine di comodo che ci fa vivere come dentro la bambagia. Rassicurante certo, ma lontano dalla vita vera.
C’è sempre più o meno manifesta quel gioco di inclusione ed esclusione che permea tutta la nostra società: qualcuno è dentro, qualcuno deve stare fuori e quasi mai ci si mette nei panni di chi si sente escluso, di chi è oggetto di un rifiuto sociale.
Oggi è difficile che qualcuno difenda delle istituzione manicomiali intesa come istituzione di contenimento, ma si cercano altre forme che colpiscano meno l’immaginario collettivo, ma che non per questo non possono essere emarginanti.
La medicalizzazione di ogni tipo di diversità sta andando, invece, avanti e non si sa dove possa arrivare se non c’è qualcuno che vi ponga un argine, che la controlli e, se necessario, la contrasti.
La velocità con cui a una situazione particolare viene affibbiata un’etichetta è molto veloce, e dall’etichetta passare allo “stigma” il passo non è poi così lungo.
Le parole, le denominazioni hanno un peso ed una volta usate rimangono appiccicate addosso alle persone che ne sono oggetto. Quando un uomo perde il proprio nome per diventare l’etichetta che lo definisce, perde la sua soggettività per diventare un oggetto osservato, studiato, persino aiutato, ma come oggetto e non come persona.
In ogni persona abita la vita che si manifesta in forme varie, a volte la persona può essere in crisi, sofferente, bisognosa di aiuto, ma vuole continuare ad essere considerata una persona e non un oggetto da esaminare. E come tale vuole partecipare alla sua cura, non essere alienato dal proprio corpo e dalla propria mente qualunque essa sia.
Fotografia di Gianni Butturini

«E’ nel silenzio di questi sguardi che egli si sente posseduto, perduto nel suo corpo, alienato, ristretto nelle sue strutture temporali, impedito di ogni coscienza intenzionale.

Egli non ha più in sé alcun intervallo: non c’è distanza fra lui e lo sguardo d’altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare ad essere una composizione a più piani di sé, posseduto dall’altro “in tutti i piani possibili del suo volto e in tutte le possibili immagini che di volta in volta possono derivare dai vari atteggiamenti che si possono cogliere”.

Il corpo perché sia vissuto è dunque nella relazione di una particolare distanza dagli altri, distanza che può essere annullata o aumentata a seconda della nostra capacità di opporsi. Noi desideriamo che il nostro corpo sia rispettato; tracciamo dei limiti che corrispondono alle nostre esigenze, costruiamo un’abitazione al nostro corpo.»

Franco Basaglia in Corpo, sguardo e silenzio, 1965

Chi si diventa quando si subisce in qualsiasi forma questo processo di alienazione, di esproprio della propria persona? Parliamo di fenomeni ai limiti come sono state e in alcuni luoghi sono ancora le istituzioni totali come i manicomi, come i lager, come gli istituti che raccolgono bambini abbandonati o di famiglia indigente, ma questo processo può partire da lontano e pian piano allargarsi o essere già sotto i nostri occhi. Quando il processo è arrivato a compimento, noi non lo vediamo perché non vogliamo più vederlo. Perché vederlo vuol dire agire come hanno agito e agiscono tutti quelli che lo rifiutano e oppongono il proprio no, forte e chiaro.

Se esiste il manicomio, l’etichetta coincide con l’entrata in manicomio; se entri lo stigma è immediato” – dice Pier Aldo Rovatti, non ci sono dubbi. “Ma – continua il filosofo – anche quando distruggiamo il manicomio permane il problema della velocità dell’etichetta, nell’individuo, nella società, in ognuno di noi (sesso, età, colore della pelle, cultura).” Una tendenza che vediamo attuarsi, per esempio, nella scuola dove ogni problema viene catalogato ed etichettato e non più visto all’interno di un processo di crescita più complessivo. Le difficoltà non sono necessariamente delle patologie. Eppure stiamo assistendo ad un processo di medicalizzazione che può, se non si è vigili, vedere in bambino un po’ vivace e anche po’ turbolento un disturbo di deficit di attenzione e così via.

Ed allora il problema è uscire dell’etichetta per relazionarsi alle persone così come sono e dare avvio all’avventura dell’incontro.

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